mercoledì 21 agosto 2019

La Folla fra Palme e Golgota


Il passo evangelico dell'arrivo di Gesù il Cristo a Gerusalemme, il festoso riconoscimento da parte della folla come il Messia, il Redentore, il Re dei Re, seguito dal tradimento e dalla condanna a morte, per acclamazione, della stessa folla, apre una serie di riflessioni che non possono non sollecitare l'attenzione di colui che ricerca la verità occultata dalle parole. 

E' possibile un tale repentino mutamento? Amore e Odio, devozionismo sacrale e cieco furore, che in breve tempo si succedono l'uno con l'altro, senza che niente sia oggettivamente accaduto nel frattempo? E' possibile osannare e poi calunniare? Seppure è volubile l'animo umano, così esposto al vento delle passioni, al momento fuggevole dell'eterna lotta fra fantasia e realtà, è mai possibile che nel volgere di poche ore colui che è Re, sia condotto a morte come brigante ?

Questo stravolgimento furioso di sentimenti, questa parcellizzazione psicologica, della folla verso il Cristo acquista un senso, una precisa collocazione, un'utile trama di lavoro e fonte di inesauribile conoscenza se trasliamo il racconto evangelico, e il simbolo che si incarna nell'involucro delle parole, a livello intimo?

In tale chiave diamo di seguito lettura, e traccia di lavoro, dei passi evangelici.

Giovanni 12:12 Il giorno seguente, la gran folla che era venuta per la festa, udito che Gesù veniva a Gerusalemme,
Giovanni 12:13 prese dei rami di palme e uscì incontro a lui gridando:Osanna! Benedetto colui che viene nel nome del Signore, il re d'Israele!

La simbologia cristiana ci ha donato l'immagine di una Gerusalemme Celeste, e di una Gerusalemme terrestre. La prima ad indicare la perfezione spirituale del regno divino, la seconda espressione umana. La prima perfetta e la seconda si imperfetta, ma perfettibile. Se riflettiamo attorno al concetto di città, di urbe, non possiamo esimerci dal considerarlo come un insieme di un pluralità di edifici, di varie fattezze e scopi, frutto di una geometria umana finalizzate ad una funzione di organizzazione e preservazione della stessa comunità, di cui la città è espressione. Si è cittadini, nell'antichità, anche in virtù del riconoscimento nell'anima, nell'idea dell'urbe.

Giovanni 12:14 Gesù, trovato un asinello, vi montò sopra, come sta scritto:
Giovanni 12:15 Non temere, figlia di Sion! Ecco, il tuo re viene, seduto sopra un puledro d'asina.
Giovanni 12:16 Sul momento i suoi discepoli non compresero queste cose; ma quando Gesù fu glorificato, si ricordarono che questo era stato scritto di lui e questo gli avevano fatto.

L'asino rappresenta il secondo Sole (Saturno), quindi il perenne divorare la vita, il tempo che scorre distruggendo anche i suoi stessi figli, ma è anche indice della carenza spirituale. Il cavalcare l'asino da parte del Cristo indica l'avvento di una nuova prospettiva, del trionfo mistico sulla meccanicità della natura inferiore. Un nuovo principio che irrompe nella molteplicità psicologica: riordinandola. Interessante notare come tale messaggio giunge dall'esterno della città, dalle mura della personalità, della cognizione-percezione: un'ispirazione, un lampo che deve essere colto e poi trattenuto: per essere modello a cui ispirarsi. Sovente l'asino raffigura la mente non educata e non formata: la quale diviene veicolo delle istanze profonde, caotiche, dall'ignoranza, dalla passione, delle eggregore, e degli aggregati psicologici.

Ogni uomo ha dei labili lampi di luce, che rompono la cecità, il giogo istintuale-emotivo in cui è imprigionato. Attraverso i sogni, le meditazioni, le pratiche introspettive, l'assenza dell'Io, emergono frammenti di ciò che fu, e che non è più, che devono essere disperatamente trattenuti e ricomposti. Una ricomposizione che passa attraverso un'azione antagonista a quelle forze inerziali, che trattengono l'uomo nel suo attuale stato di oggetto, di elemento di caotico insieme.

Giovanni 18:39 Vi è tra voi l'usanza che io vi liberi uno per la Pasqua: volete dunque che io vi liberi il re dei Giudei?».
Giovanni 18:40 Allora essi gridarono di nuovo: «Non costui, ma Barabba!». Barabba era un brigante.

La stessa identica folla che acclama il Cristo, pochi giorni dopo lo condanna a morte, preferendo donare la libertà a Barabba, un uomo che si è macchiato di fatti di sangue.

Chi rappresenta Barabba se non la natura violenta, passionale, e bestiale dell'uomo, tesa a dare soddisfazione al proprio desiderio di potenza, del gesto eclatante dell'essere in quanto perturbatore e distruttore ? Un singolo gesto, una singola illusione o fantasia, è sufficiente per ricacciare l'uomo stesso indietro lungo la via solare, rappresentata dal Cristo che cavalca l'asino, e relegarlo nuovamente nella ciclicità meccanicità di Saturno-Cronos.



La massa, il composito mosaico della nostra struttura psicologica, ha prontamente detronizzato il Cristo, per innalzare a suo nuovo reggente e conduttore la forza istintuale. D'altronde non siamo noi stessi pronti ad abbracciare una qualsiasi idea e prospettiva che ci appare, nella contingenza e nell'accidente, risolutiva e benefica; salvo poi, al mutare delle situazioni, ripudiarla? Fino a quando la nostra mente non troverà centralità in un'Idea Superiore, rischiarata da una scintilla della luce perenne, saremo in balia della nostra folla interiore, selvaggia, priva di costrutto e ragionamento: che cerca immediata soddisfazione.

Esercizio: osserviamo le nostre opinioni e certezze. Chiediamoci se esse sono il frutto di una verità esperienziale che abbiamo mutuato da accadimenti vissuti, oppure se è posticcio orpello psicologico.

domenica 18 agosto 2019

Quelli che sono nella Verità generano altri (Vangelo di Filippo)


1.) L’Ebreo[1] crea l’Ebreo, e questo è chiamato così: "proselito[2]"; ma un proselito non crea un proselito. Quanti sono nella Verità[3] sono della Verità e generano altri; a questi  è sufficiente entrare nell'Esistenza[4].



[1] Ha inizio, e proseguirà per un lungo tratto di questo scritto, un parallelismo fra la forma e la sostanza dell’ebraismo e la forma e la sostanza dello gnosticismo. Per la scuola valentiniana, a cui possiamo ascrivere questo testo, l’ebraismo è la religione che si raccoglie attorno al culto del Demiurgo, il Dio Tetragrammatico, che ha creato questo mondo e che governa attraverso il tempo e le passioni: un dio minore cieco ed arrogante.
[2] Tardo latino  prosely̆tus, e questo dal greco. προσήλυτος, propr. «sopravvenuto». Nell’antico ebraismo così erano indicati coloro che si convertivano da altra religione a quella ebraica. Tale passaggio lascia aperta una serie di ipotesi. In base al “Halakhah” (è la tradizione "normativa" religiosa dell'Ebraismo), la condizione ebraica (di una persona, si deve considerare la condizione di entrambi i genitori. Se entrambi sono ebrei, allora anche la prole sarà considerata ebrea, ed assumerà lo status del padre (per esempio quello sacerdotale se è un Cohen). In una versione meno rigorosa si è ebrei per via matrilineare e solamente in un’accezione non rigorosa, e quindi ortodossa, lo si è in forza di un proselito. Il versetto fa supporre che è possibile convertirsi all’ebraismo, ma che il convertito non sarà mai un vero ebreo: lasciando supporre una filiazione psichica/spirituale/magica che scorre per via carnale.
[3] La “Verità” a cui il narratore si riferisce è quella incarnata nello gnosticismo, e non deve essere intesa quale frutto di un processo dialettico razionale. Essa, la Verità, è sostanziale in quanto è veicolo e forma di salvezza. Questa verità non riguarda i fenomeni e la manifestazione in cui lo gnostico è immerso, non concerne gli effetti, i sintomi o le cause che determinano i pesi, le misure e le regole che governano questo mondo. La verità di cui si narra è duplice. 1. La comprensione dell’illusoria ciclicità di questo mondo espressione di un dio minore 2) l’appartenenza ad una figliolanza spirituale altra rispetto a quella carnale.
[4] L’esistenza ha qui un duplice significato. Il primo ha valore ontologico: è il ricollegamento all’Essere, al ProtoGenitore, alla discendenza del Pleroma a cui lo gnostico deve tendere. Il secondo ha valore comparativo: colui che è esiste nella Verità è perfetto a sé stesso e immutabile: egli non ha più necessità di creare: egli genera suoi simili nella sostanza spirituale.

mercoledì 14 agosto 2019

Camera Nuziale Celeste


"Il padre fa un figlio, ma il figlio non può fare un figlio: poiché colui che fu generato non ha il potere di generare; un figlio può acquisire dei fratelli, non dei figli. Tutti coloro the sono generati nel mondo sono generati in modo naturale; ma gli altri dallo Spirito. Coloro che sono generati da lui gridano di quaggiù vaso l'uomo (perfetto), poiché sono nutriti dalla promessa del luogo celeste." (Vangelo di Filippo)


Ma quale la funzione dell'ultimo dei cinque sacramenti? Il brano sopra riportato indica come due siano le linee di figliolanza, di creazione e generazione: l'una naturale e l'altra divina. Due le nature che al contempo dimorano nell'uomo, la bassa istintuale che lo lega ai cicli del mondo, e la spirituale che lo libera, innalzandolo al rango perduto. La condizione normale di stato è la prima, che impone ad ognuno di noi una linearità tesa a perpetuarsi in una catena infinita di ruoli, situazioni, e accadimenti legati allo spazio, al tempo, e alle casualità, nel gioco dualistico che attiene ad ogni azione/reazione.

Il Figlio dell'uomo ricevette da Dio il potere di creare. Egli può anche generare. (Vangelo di Filippo)

Il Potere che consegue colui che è stato amato ed ha amato nella camera nuziale celeste è quello di generare e non di creare.

Crea colui che è stato creato, pone in essere atti, fatti e pensieri in questo contesto naturale e fenomenico, in una sorta di processo degenerativo e tumorale.

Genera colui che è stato emanato, che è quindi della stessa sostanza del Padre, e perciò ne è figlio riconosciuto.

Ma quale significato viene dato al verbo generare dall'estensore del Vangelo? Lo gnostico si pone antiteticamente a questo mondo sensibile ed e il suo desiderio è il ritorno al Pleroma, il mondo spirituale da cui proviene; il potere di generare assume quindi come valore quello di rigenerare lo stesso gnostico e di porlo così oltre al mondo ed al corpo stesso; lo gnostico iniziato nella Camera Nuziale Celeste è egli stesso Padre, Fonte, Uno Eternamente Stabile ed Immutabile, che genera senza essere creato, che è senza necessità di un tempo e di uno spazio per avere misura e determinazione.

Ogni gnostico che ha raggiunto questa fase è FIGLIO DELL'UOMO CHE È DIVENTATO FIGLIO DI DIO, e come possiamo ben comprendere siamo innanzi ad un'operazione teurgica: essere strumento di Dio, avere le qualità e i poteri di Dio, essere Dio stesso.

Hermanubis e Abraxas


Numerose sono le similitudini che accomunano Abraxas e la divinità Hermanubis. Anch’esso era un Dio ibrido che univa Hermes[1] ( mitologia greca: il messaggero degli Dei) con Anubi ( mitologia egizia ). Questa divinità trova il suo massimo splendore in Egitto durante gli anni della dominazione romana. E’ sicuramente interessante notare come nell’Antica Grecia Hermes idealizzava e simboleggiava l’anima dell’attraversamento e del passaggio: momenti in cui esso si manifestava o doveva essere invocato.  Ovviamente anche durante il passaggio o mutazione da un luogo all’altro o da uno stato all’altro. In ciò troviamo facile richiamo ad una funzione di psicopompo o di mediatore fra il mondo superiore del divino e quello inferiore dell’uomo. E’ ancora meritevole ricordare l’Ermafrodito (in greco antico: Ἑρμαφρόδιτος) è una divinità frutto dell’unione erotica e sensuale di Hermes e di Afrodite. Ermafrodito veniva venerato come l’unione sacra degli uomini con le donne. Anubi (divinità egizia) era il protettore delle necropoli e del mondo dei morti[2]: raffigurato come un uomo dalla testa di canide. Presente durante, assieme alla Dea Maat e al Dio Toth, della pesatura delle anime, assumerà anche significato di accompagnatore delle anime durante il viaggio nel mondo dei morti. Il connubio, quasi a voler rappresentare un Rebis[3], fra Hermes e Anubi vuole significare l’unione di due mediatori: il primo che è pontiere fra il divino e l’uomo; il secondo che è tramite fra il mondo dell’uomo e quello dei morti. Hermanubis era considerato come il Sommo Sacerdote dei Misteri e della Verità. Nella rappresentazione di questo Dio, in apertura del presente paragrafo, vediamo che eccezionalmente[4] ha le gambe a forma di serpente. Dando vita al tripartitismo (gambe di animale, busto di uomo, testa di animale) che ritroviamo anche in Abraxas. Hermanubis presenta gambe di serpente, come Abraxas, e testa di canide, mentre Abraxas, sempre gambe di serpente, ma testa di gallo o leone. Possiamo forse affermare, essendo la statua calcarea del terzo secolo dopo Cristo e il simbolo di Abraxas del secondo secolo dopo Cristo, che Abraxas abbia influenzato la costituzione e lo sviluppo del culto di Hermanubis? Lascio ad ognuno di voi questo affascinante interrogativo.



[1] Platone fa sostenere a Socrate che si 'dice' che: «Ermes è dio interprete, messaggero, ladro, ingannatore nei discorsi e pratico degli affari, in quanto esperto nell'uso della parola; suo figlio è il logos»
[2] «Anubi è sul suo ventre [del defunto] [...]. La tua putrefazione non è; il tuo sudore non è; il defluire dei tuoi liquidi non è; la tua polvere non è.» (Testi delle piramidi, n°535)
[3] Il rebis o rebis alchemico (dal latino res bis «cosa doppia»)è un concetto e simbolo alchemico che vuole indicare un matrimonio/comunione alchemico teso a dare vita ad una nuova forza/sostanza/intelligenza che non sussiste in natura. Sovente è anche indicato come Pietra Filosofale.
[4] In genere le sue gambe sono umane.

mercoledì 22 maggio 2019

IL GIUDIZIO



Sovente si ode suggerire (con fare saputo), in ambito spirituale e iniziatico, la necessità di astenersi da ogni giudizio. Lo steso Vangelo di Matteo ricorda:

"Non giudicate, per non essere giudicati; perché con il giudizio con il quale giudicate sarete giudicati voi e con la misura con la quale misurate sarà misurato a voi."

Orbene conoscendo agiti, dinamismi e formazione di tanti, troppi, spiritualisti contemporanei ritengo opportuno evidenziare alcune semplici considerazioni.

La vita ordinaria ci richiede, in ogni momento, di valutare le circostanze, giudicare fatti e accadimenti e di conseguenza agire. Non ci è permesso di esimerci da ferrea e meccanica logica, pena disagio, sofferenza e danno. Essendo la via iniziatica e il cammino iniziatico un'intensa consapevolezza, è ovvio che l'astenersi da OGNI GIUDIZIO non deve essere inteso in forma letterale, in quanto ciò inevitabilmente condurrebbe all'inazione, all'acriticità, alla passività e alla creduloneria (caratteristiche oggi, purtroppo, ben presenti nell'ambiente).

Tale profondo monito è rivolto piuttosto alla meccanica del "giudizio", e questo concetto può essere riassunto in poche e circostanziate parole: "SEI IN GRADO DI FORMULARE UN EQUANIME GIUDIZIO A CARATTERE MORALE O SPIRITUALE?" Le informazioni in tuo possesso e la tua capacità di analisi e sintesi sono adeguate? Ecco quindi, inevitabilmente, come un corretto giudizio, se proprio non possiamo esimerci, nasca da un propedeutico giudizio sulla nostra capacità di leggere quanto la grande ruota dell'esperienza ci offre in questa palestra chiamata vita.

Quando ad esempio un individuo dalla personalità debole giudica violento il comportamento di una persona dal carattere solido e forte... quanta invidia e senso di inadeguatezza si celano dietro a siffatto giudizio? Quando una donna non piacente giudica vanesia una donna avvenente, quanta invidia vi è celata dietro? Quando un uomo povero, per fato o incapacità, giudica esagerata la ricchezza altrui quanta invidia e senso di rivalsa si annidano nel suo pensiero?

Ebbene dietro ad ogni giudizio non equanime vi è sempre un meccanico trinomio psicologico: Orgolio (la supponenza di essere in grado di giudicare), Invidia (nei confronti di ciò che giudichiamo, Fantasia (il morboso e inconfessato piacere di essere colui che stiamo giudicando: perchè lui e non io?).

Ecco quindi, in conclusione, l'opportunità di interrogarci attorno alla natura dei nostri giudizi. Praticando l'autosservazione e ricercando le profonde radici di ognuno di essi. E questo non perchè dobbiamo essere buoni, ma perchè dobbiamo essere consapevoli.

Non esistono buoni inconsapevoli, ma solo beoti inconsapevoli.